lunedì 9 giugno 2014

A occhi aperti, il libo di Mario Calabresi



Ho appena finito di leggere il libro di Mario Calabresi "Ad occhi aperti" edito da Contrasto. Un bellissimo regalo che mi hanno fatto i ragazzi del Gruppo di Fotografia. Così stavo leggendo un altro libro di cui magari scriverò più avanti, ma l'ho messo subito da parte e mi sono buttato in picchiata su questo.
Anche perché è un libro di quelli che inizi a leggere ed ogni pagina che leggi scopri qualcosa di interessante, uno di quei libri che leggi con gusto, che vorresti finire subito e allo stesso tempo vorresti non finisse mai.
Calabresi intervista i grandi fotografi, trascinato dalla volontà di sapere come il tale fotografo ha scattato quella foto che lo ha reso famoso, in che condizioni era, cosa lo ha spinto a fare quello scatto.
Calabresi è un direttore di giornale con la sensibilità fotografica, perchè "negli incontri con i fotografi si trovano molte chiavi di lettura del giornalismo" come scrive lui alla fine del libro.
Sono dieci i fotografi che intervista, da Steve Mcurry che fotografa le inondazioni amazzoniche nel 1983 in India e che dice: «quell'anno ho capito che per farcela avrei dovuto entrare nell'acqua lurida, coperta di melma, di rifiuti di animali morti». McCurry che afferma che le sue foto le ha sempre realizzate alla mattina presto o al tramonto, «perchè in quei momenti la luce è migliore», che spiega che «per trovare la luce e le inquadrature giuste servono ore o giorni....In Oriente, soprattutto in India  ho imparato ad aspettare ad avere pazienza»...
Poi intervista Joseph Koudelka, che nel 1968 fotografa la primavera di Praga, rimane per anni il "fotografo anonimo praghese" perchè avendo fotografato l'invasione dei russi, come erano andate veramente le cose  aveva paura che gli potessero fare del male.
Calabresi intervista anche Gabriele Basilico e Paul Fusco, con quest'ultimo parla delle foto del "Funeral Train", il treno che trasportò il feretro di Bob Kennedy da Manhattan al cimitero nazionale di Arlinton, da New York  alla Virginia. L'autore salì sul treno e cominciò a fotografare le tantissime persone che ai lati della ferrovia si fermarono quel giorno per dare l'ultimo saluto a Robert Kennedy. Volti smarriti di chi aveva perso la speranza.


A parlare nel libro sono anche Abbass,  Paolo Pellegrin «Se le tue foto non sono abbastanza buone significa che non sei abbastanza vicino diceva Robert Capa... ma a volte - come ammette lo stesso Pellegrin -  avvicinarsi al soggetto significa mettere a rischio la propria vita» , Alex Webb  ("Esistono momenti in cui il dio della fotografia decide di farti un regalo") e  Sebastiao Salgado.

Di Salgado proprio di recente ho potuto ammirare il lavoro "Genesi". Salgado che nel libro afferma: «Ho rivisto nell'amazzonia l'uomo di migliaia di anni fa, e ho capito che siamo animali sociali, comunitari. Lì è la nostra salvezza. Ho visto uomini agili che sono abituati a salire e scendere dagli alberi. Noi siamo diventati animali pesanti. Siamo sempre seduti, abbiamo troppo cibo. Ma un altro mondo esiste».
C'è l'intervista a Don McCullin che fotografa la guerra civile di Cipro, la guerra  e carestia alimentare in Biafra, la guerra in Vietnam: «la mia fotografia è politica!». Poi Elliott Erwitt a cui non rivolge le solite domande sui cani che saltano ma piuttosto delle tensioni razziali in America. Mi rendo conto che quando si legge un libro bisognerebbe rileggerlo perchè tante cose di quelle che hai letto pur essendo interessanti non restano impresse: però una delle frasi che mi resterà di questo libro è proprio quella di Erwitt, nata proprio guardando una foto fatta ad Obama nel 2009 in cui tutti i presenti fotografano con il cellulare: Nell'era digitale che senso hanno ancora i fotografi ed Elliott risponde: «Tutti possono avere una matita ed un pezzo di carta, ma pochi sono i poeti».






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